In età medievale il papa fu considerato depositario della massima autorità scolastica grazie al suo ruolo di guida della Chiesa Romana. In qualità di membri del collegio episcopale da lui presieduto, i vescovi furono partecipi di questa autorità assolvendo all’importante ufficio di cancelliere, direttamente o attraverso propri rappresentanti, laddove sorsero gli Studia (quelle realtà complesse che oggi si chiamerebbero Università).
Mentre a Parigi e a Bologna ricoprirono la carica, rispettivamente, il cancelliere del capitolo dei canonici di Notre Dame e l’arcidiacono della cattedrale, negli atenei sorti tra il XIII e il XV secolo in Italia (gli Studi di Arezzo, Siena, Perugia, Firenze, Pisa, Pavia Ferrara e Catania) l’ufficio di cancelliere venne svolto dai vescovi locali o da loro delegati, come spesso accadde anche oltralpe. Lo Studio di Padova non fece eccezione: anche se pochissime sono le notizie per i primi decenni, la sua attività fu sostenuta e controllata dal vescovo, garante della correttezza degli esami di laurea, la cui cancelleria provvedeva al rilascio dei documenti attestanti il conseguimento del titolo.
Il primo documento che ci attesta l’esistenza di un legame così forte tra Università e vescovo di Padova è una bolla emessa il 9 gennaio 1264 da papa Urbano IV, su istanza della stessa corporazione degli studenti che si erano rivolti al pontefice attraverso il vescovo Giovanni Battista Forzatè (1250 (ma entrato in sede nel 1256) – 1283). In essa si confermava uno statuto deciso dagli studenti, secondo cui era il vescovo a concedere la licenza di insegnare dopo un esame pubblico condotto alla sua presenza e dinanzi ai maestri dello Studio di Padova. Una copia quattrocentesca della bolla papale di Urbano IV è custodita nell’Archivio Storico Diocesano di Padova (Tomus Niger, Privilegia, 91).
Secondo Andrea Gloria, archivista e paleografo del XIX secolo, appare, tuttavia, più che plausibile supporre che qualche forma di legame, se non addirittura l’incarico di cancelliere, fosse assolto già dal vescovo Giordano (1214 – 1228), un prelato di origini modenesi, dotato di preparazione giuridica e in rapporti con lo Studio di Bologna, sotto la cui egida probabilmente avvenne la celebre ‘migrazione’ studentesca dalla città emiliana a Padova nel 1222.
La cattedrale (o una delle sacrestie) e poi il palazzo vescovile (certamente dal 1488) furono i luoghi dove si riunivano i Collegi dottorali per espletare gli esami e dove venivano conferite le lauree, privatamente nell’esame di licenza e pubblicamente con il solenne dottorato o conventus. Ne sono testimonianza il più antico diploma di laurea giunto fino a noi, conseguito da Guidotto d’Abbiate il 31 luglio 1281 al termine degli studi in diritto canonico e depositato presso l’Archivo Ducal Medinaceli, di Siviglia, e lo Specimen expensarum et reddituum sacristie ecclesie Paduane, un documento redatto dal notaio Pietro Marosticano dal quale si può trarre l’elenco di dieci dottorati conferiti in cattedrale tra il 1306 e il 1307.
Nel loro ruolo di cancellieri i vescovi padovani, durante la signoria Carrarese, si occuparono dello Studio, spendendosi presso l’autorità pontificia per la conferma del titolo di Studio generale, sanando situazioni di conflittualità fra professori e scolari e provvedendo all’istituzione e gestione di strutture di accoglienza per gli studenti. In modo particolare, furono importanti i vescovi Pagano della Torre (1302 – 1319), personaggio di grande spessore politico e figura ben inserita nella vita culturale cittadina, Ildebrandino Conti (1319 – 1352), nobile romano spesso presente nella Curia di Avignone, legato a Francesco Petrarca da grande amicizia, che nel 1346 ottenne da Clemente VI una bolla pontifica di conferma dello Studio padovano, e Pileo da Prata (1359 – 1370), friulano e stretto parente dei Carraresi, che, durante la sua permanenza a Padova, concesse nel 1360 agli studenti di arti e medicina una prima forma di limitata autonomia dai giuristi, nel 1363 si attivò con papa Urbano V per ottenere la concessione ufficiale della Facoltà teologica e, nel 1366, provvide alla stesura dello statuto del Collegio Tornacense, la prima fondazione collegiale per studenti della storia dell’Università di Padova.
La fine della signoria Carrarese e l’avvento della dominazione veneziana (1405) produsse una progressiva erosione delle prerogative dei vescovi – cancellieri. Interessata a rendere lo Studio padovano un centro di eccellenza di livello europeo, Venezia avviò a favore dell’Università un complesso di azioni che puntarono a ridimensionare l’autorità ecclesiastica sullo Studio. In larga parte provenienti dalle file del patriziato veneziano, i vescovi padovani che si susseguirono dal 1406 al 1797, pur disponendo di solida formazione culturale e di ferma coscienza del proprio ruolo e dell’importanza del loro ufficio pastorale, dovettero misurarsi e spesso cedere dinanzi ai crescenti interventi della Dominante.
Un’eccezione importante a questo orientamento fu rappresentata dal vescovo Pietro Barozzi (1487 – 1507). Voluto dalla Serenissima sulla cattedra di Pietro Barozzi anche per frenare le irrequietezze che stavano percorrendo lo Studio sotto il profilo disciplinare e intellettuale, Barozzi provvide al riordino dei cinque collegi universitari all’epoca esistenti, introdusse un regolamento o ‘turno di servizio’ per l’organizzazione degli esami di laurea – oggetto di contrasti fra giuristi e artisti – nel ‘tinello dei dottori’, fatto appositamente costruire da lui, e, nel 1496, partecipò alla revisione degli statuti degli artisti. Nella duplice veste di vescovo e cancelliere, il suo intervento più noto risale al 4 maggio 1489: preoccupato che le discussioni filosofiche uscissero dalle aule universitarie per diffondersi nei diversi ambienti cittadini, Barozzi, insieme all’inquisitore locale, fece affiggere alle porte della cattedrale e della basilica di Sant’Antonio un editto in cui minacciava la scomunica contro chiunque discutesse in pubblico, anche solamente come ipotesi, l’unicità dell’intelletto, mettendo così in discussione il dogma dell’immortalità dell’anima, che venne ribadito pochi anni dopo dal Concilio Lateranense V (1512).
Ridimensionato ulteriormente dalla nascita dei “Riformatori dello Studio di Padova” (una magistratura veneziana, eletta per la prima volta nel 1517 e definitivamente stabilita nel 1528, chiamata ad esercitare funzione di controllo sull’Ateneo, in luogo degli antichi tractatores del Comune di Padova), l’ufficio di cancelliere ricoperto dai vescovi, pur non perdendo il suo ruolo di garante delle formalità dell’esame di laurea, venne messo gravemente in crisi dai conflitti religiosi che esplosero nel XVI secolo, in ragione dell’adesione di diversi studenti e docenti dello Studio alle confessioni riformate (luteranesimo e calvinismo) e a forme di cristianesimo radicalmente antitrinitarie come il socinianesimo. La promulgazione della bolla di Pio IV In sacrosancta (13 novembre 1564) in cui si imponeva in tutto il mondo cattolico la professione di fede cattolica e il giuramento di fedeltà al romano pontefice a quanti intendessero sostenere la laurea, creò, infatti, in varie occasioni forti tensioni fra l’autorità episcopale padovana, legata da un vincolo di obbedienza al papato e fermamente intenzionata a fare rispettare la norma, e il governo veneziano. La Repubblica, infatti, fu attenta a preservare qualche spazio di tolleranza per evitare di perdere gli studenti provenienti dai territori tedeschi che avevano aderito alla Riforma protestante, gli studenti legati agli ambienti ugonotti francesi e quelli calvinisti d’Ungheria o di Polonia, nonché gli scolari inglesi e i sudditi greci appartenenti alla Chiesa ortodossa. Dinanzi alla ferma volontà dei vescovi di non autorizzare le lauree degli studenti stranieri eterodossi, la Serenissima dapprima si rivolse ai conti palatini, autorizzati dal potere imperiale al rilascio delle lauree universitarie, e successivamente, tra il 1612 e il 1616, realizzò una novità di rilievo con istituzione del Collegio per i dottorati di filosofia e medicina «auctoritate veneta», basata, cioè, sull’autorità statale della Repubblica, a cui si aggiunse, nel 1635, il Collegio per i giuristi, dove gli scolari non cattolici si laureavano senza l’obbligo di giuramento previsto dalla bolla papale.
Nonostante queste difficoltà, proprio nel XVII secolo, il ruolo di cancelliere assolto dai vescovi padovani conobbe un rilancio. Figura importante ed autorevole in questo ruolo fu Gregorio Barbarigo (1664 – 1697). Vigile tutore del cattolicesimo controriformistico contro la possibile diffusione di idee ereticali in diocesi, Barbarigo, in qualità di cancelliere, incise con fermezza sulle nomine dei lettori dello Studio, pure di competenza del Senato veneziano, ed esercitò un forte controllo sulle idee religiose con cui entrava in contatto la componente studentesca. Nel 1678 autorizzò la laurea in filosofia per Elena Lucrezia Piscopia Cornaro, dopo averle, però, rifiutato il permesso di sostenere l’esame per il conseguimento del titolo di dottore in teologia.
Nel corso del Settecento i vescovi padovani esercitarono in maniera un po’ piatta e monotona la funzione di cancelliere su un’Università cittadina contraddistinta dal conservatorismo e dalla preservazione degli equilibri corporativi tradizionali. Non valse loro da stimolo nemmeno la presenza fra il file del proprio clero diocesano di docenti universitari di calibro internazionale come l’astronomo Giuseppe Toaldo, già arciprete di Montegalda, i letterati Jacopo Facciolati e Clemente Sibiliato, formatisi nel Seminario vescovile, rifondato nel 1670 dal vescovo Gregorio Barbarigo, e luogo di eccellenza dell’alta cultura padovana dell’epoca.
Il legame fra Studio universitario e vescovi-cancellieri fu definitivamente spezzato nel 1806, allorché con il decreto di Saint-Cloud (25 luglio) venne disposta la soppressione di tutte quelle tradizioni corporative medievali giudicate in contrasto con il programma di centralizzazione, statalizzazione ed ammodernamento delle università dell’Italia settentrionale (Bologna, Pavia, Padova) voluto da Napoleone I sul modello francese.