La cura dell’«ultimo», sia esso il povero, il malato o lo straniero, costituisce uno dei tratti specifici della carità.
Per questo, fin dall’Alto Medioevo, le comunità cristiane presenti a Padova realizzarono strutture deputate all’assistenza dei poveri e all’accoglienza degli stranieri che, in viaggio per ragioni di fede, chiedevano ospitalità, come attesta, nel IX secolo, la presenza presso la chiesa di Santa Giustina di un xenodochium gestito dai monaci benedettini con l’appoggio economico del vescovo Rorio a favore tanto di coloro che si recavano in visita presso la tomba della martire quanto dei pauperes, dei poveri.
Per lungo tempo gli ospizi e gli ospitali furono luoghi di accoglienza con funzioni molto ampie e non specifiche. In essi trovavano assistenza poveri, malati e pellegrini, come accadeva all’ospizio di San Salvatore, presente già alla fine del XII secolo vicino alla chiesa della SS. Trinità fuori porta Codalunga, dove venivano accolti tanto i poveri della zona quanto i viandanti provenienti dall’Oltre Brenta, o all’ospizio di San Massimo, attiguo alla chiesa parrocchiale intitolata al medesimo santo, dove il ristoro per i pellegrini e il sostegno ai poveri era garantito dalle multe che il vescovo riscuoteva da preti incorsi in qualche infrazione o colpa. Il consolidamento di questa attività di assistenza non specializzata ebbe luogo tra il XII e il XIV secolo: alla fine del Trecento erano a presenti a Padova ed immediate vicinanze diciannove ospizi e lazzaretti, tra i quali spiccava la Ca’ di Dio, un istituto collocato fra le attuali via S. Caterina e via S. Sofia, controllato direttamente dalle autorità cittadine e dalla fraglia dei battuti di S. Maria della Casa di Dio, chiamato inizialmente a ricevere viandanti, poveri e infermi e, successivamente, a prestare accoglienza anche ai bambini esposti.
Nel corso del XV secolo l’organizzazione assistenziale cittadina conobbe un drastico cambiamento. Nell’ottobre 1414 i coniugi Baldo e Sibilia Bonafari, ispirati dai valori dell’Osservanza francescana, avviarono la costruzione dell’ospedale di San Francesco, collegato ad una chiesa e ad un convento. Diversamente dalle istituzioni assistenziali precedenti, sospese fra cura del povero e dell’ammalato e ospitalità per il pellegrino, la struttura assunse fin da subito un tratto specifico, puntando ad offrire sostegno a quanti soffrivano sotto il peso della vecchiaia e della malattia e risultavano esclusi dalla rete di assistenza che il sistema delle corporazioni padovane aveva elaborato in favore dei propri membri. L’ospedale di San Francesco diede una spinta importante alla riorganizzazione del sistema assistenziale cittadino, nel quale si iniziò ad assegnare a ciascuna struttura un compito particolare: mentre l’ospedale di San Francesco si assunse la cura di malati ed infermi, la Ca’ di Dio venne specializzandosi nell’accoglienza degli orfani e, fuori città, un lebbrosario si fece carico esclusivamente di quanti presentavano «ulcere pessime», ossia malattie della pelle tra cui spiccava la lebbra.
Per volere dei coniugi Bonafari, legati alla scomparsa signoria Carrarese, la gestione del patrimonio dell’ospedale di San Francesco venne affidata al Collegio dei giuristi con lo scopo di contrastare per vie legali i tentativi di acquisizione del controllo dell’istituto da parte delle autorità veneziane, intenzionate a dirigere strutture assistenziali per consolidare il consenso fra la popolazione. La cura dei malati era, invece, garantita da un piccolo gruppo di medici e chirurghi e da una folta schiera di volontari provenienti in larga parte dal Terz’Ordine francescano e dediti all’assistenza dei «pauperes Christi», ossia i poveri infermi. Questi terziari francescani non limitavano la loro attività al solo ospedale, ma si prestavano anche all’assistenza domestica di infermi benestanti, anche quando affetti da gravi malattie come la peste.
Lo Studio universitario entrò ben presto in contatto con l’ospedale di San Francesco. Locali di proprietà dell’istituto vennero affittati per dare alloggio agli studenti o per accogliere lezioni della Scuola dei legisti, che beneficiava di un rapporto privilegiato con il Collegio dei giuristi. L’ospedale, in alcune occasioni, si rese disponibile ad accogliere l’attività di ricerca dei docenti della Scuola medica: già alla metà del Quattrocento furono presi accordi per lo svolgimento di dissezioni anatomiche da parte di professori dello Studio. Privo di carattere formale, il rapporto fra ospedale e Studio si mantenne nel corso del Cinquecento grazie alla tendenza di professori come Marco degli Oddi e Albertino Bottoni di portare gli studenti al letto dei malati per completare le loro lezioni universitarie. Nel corso del secolo successivo il rapporto si rafforzò ulteriormente con l’istituzione della cattedra De morbis, morborum causis, et symptomatibus, et de pulsibus et urinis, il cui titolare, dal 1619, venne tenuto a visitare i malati dell’ospedale.
Il complesso religioso (chiesa e convento) a cui era collegato l’ospedale di San Francesco fu anche il luogo da cui trassero slancio spirituale le attività assistenziali della Scuola di Santa Maria della Carità. I membri di questa confraternita, infatti, si riunivano mensilmente presso la chiesa di San Francesco per celebrare la messa. Dalla dimensione devozionale traeva ispirazione l’impegno a favore delle fasce sociali più disagiate attraverso l’elargizione di denaro o generi alimentari, un’azione peraltro funzionale a stemperare le tensioni prodotte dall’afflusso in città di poveri affamati che giungevano dalle campagne.
Nonostante il sostegno economico fornito da lasciti e donazioni di molti generosi benefattori, l’assistenza sanitaria erogata dall’ospedale di San Francesco dovette, purtroppo, misurarsi con gravi problemi legati a cattive gestioni amministrative e al crescente numero di malati che domandavano ricovero. La preoccupante situazione finanziaria dell’ospedale venne aggravandosi nel corso del Seicento. Nel Settecento le autorità veneziane che governavano la città non poterono fare altro che constatare la situazione di generale degrado in cui erano costretti gli ammalati e la sostanziale inadeguatezza di una struttura che, pensata per accogliere al massimo 50 malati, nei mesi invernali arrivava ad ospitarne oltre 150.
La frammentazione della spedalità, centrata su tanti piccoli stabilimenti nonostante la presenza del nosocomio di San Francesco, e i progressi degli studi medici fecero avvertire in maniera crescente la necessità di una nuova struttura ospedaliera, in cui l’assistenza sanitaria venisse gestita in maniera razionale. Il principale promotore e sostenitore dell’erezione di un nuovo ospedale fu il benedettino Nicolò Antonio Giustiniani, vescovo di Padova dal 1772 al 1796, che aveva compreso il bisogno e l’importanza di una tale struttura visitando gli ammalati presenti nelle infimae plebis tuguriae, ossia nelle misere abitazioni della gente povera. Egli individuò il sito idoneo ad ospitare una struttura ospedaliera nell’area dove sorgeva il convento dei gesuiti, sgombrato nell’ottobre 1773 a seguito dello scioglimento dell’Ordine, e affidò all’abate Domenico Cerato il progetto di costruzione. Mosso da pura carità, Giustiniani si impegnò con costanza per reperire le risorse economiche necessarie alla realizzazione dell’opera, mettendo a disposizione i propri beni, mobilitando la popolazione e coinvolgendo in modo particolare gli strati sociali più abbienti, attratti da un’iniziativa che abbinava i valori della solidarietà e carità cristiani con il progresso scientifico, particolarmente valorizzato nell’età dei Lumi.
I lavori di costruzione durarono quasi vent’anni, dal dicembre 1778 al febbraio 1798. Nell’edificazione dell’ospedale si tennero presenti le precise indicazioni medico-sanitarie fornite da Andrea Comparetti, docente di medicina pratica presso lo Studio. Il 29 marzo 1798 una struttura nuova, funzionale, nella quale potevano unirsi attività clinica e ricerca universitaria, accolse i malati dell’ospedale di San Francesco, requisito per l’acquartieramento di truppe austriache.
Nel turbolento contesto politico di inizio Ottocento Francesco Scipione Dondi Dall’Orologio, nominato vescovo di Padova nel 1807 dopo avere retto la diocesi negli anni di vacanza della sede episcopale, dovette rassegnarsi ad un ruolo marginale nella gestione dell’ospedale “giustinianeo”: nel 1818 la Congregazione di Carità, l’ente che amministrava l’istituto e al quale partecipava il vescovo, venne, infatti, sciolta dall’autorità austriaca e sostituita da un Consiglio di amministrazione, dove l’elemento ecclesiastico era assente. Nonostante questo, coerentemente con una condotta che lo vide sempre impegnato nella collaborazione con i poteri pubblici, Dondi Dall’Orologio favorì il coinvolgimento del clero parrocchiale nelle politiche di salute pubblica, obbligando i parroci a riferire all’autorità civile ogni tipo di malattia contagiosa e sollecitandoli «e dall’altare e ne’ catechismi e fuori» a fare presente alla popolazione l’importanza della vaccinazione pubblica.
Nel corso dei decenni dell’Ottocento lo spirito di carità che era stato alla base dell’ospedale di San Francesco cedette il passo a una concezione più moderna e consapevole di assistenza, resa più forte e solida dall’insegnamento accademico impartito nella struttura ospedaliera dai docenti dell’Università di Padova. Lo dimostrava quanto scriveva l’8 maggio 1871 la commissione che, sotto il Regno d’Italia, era stata posta alla guida dell’ospedale: «il nostro Spedale non deve essere riguardato soltanto come asilo caritativo pegl’infermi poveri, ma eziandio come un grande ed importante centro di istruzione e di perfezionamento».
In questo contesto la vicinanza umana e spirituale continuò ad essere garantita da due cappellani, uno per i reparti delle donne e uno per quelli degli uomini, a cui si aggiunsero, nel 1879, una quindicina di suore addette alle sale e alle cliniche. Quest’opera di assistenza si perfezionò nel 1900 con il ritorno a Padova dei chierici regolari Ministri degli Infermi, meglio noti come Padri Camilliani in onore del loro fondatore san Camillo de Lellis: ad essi il Consiglio di amministrazione dell’ospedale, d’intesa con il vescovo Giuseppe Callegari, affidò la cura d’anime dei malati che affollavano le corsie del nosocomio. Inizialmente tre, i Camilliani accrebbero il loro numero in proporzione alle dimensioni dell’ospedale: alla vigilia della seconda guerra mondiale erano sei, passati a sette alla fine delle ostilità e saliti ulteriormente a otto nel 1951, anno in cui giunse a Padova padre Aldo Antonelli, uno dei fondatori e primo assistente spirituale dell’Unione Italiana Medico Missionaria. Arrivato in città per studiare medicina, padre Antonelli aprì una strada nuova, perché dopo di lui altri religiosi giunsero per studiare e conseguire la laurea in medicina presso l’ateneo patavino, prestando la propria assistenza spirituale tra i malati dell’ospedale e svolgendo cura pastorale nella parrocchia di San Camillo de Lellis, posta nelle immediate vicinanze delle cliniche, che l’autorità vescovile padovana aveva inteso affidare ai Camilliani.
L’ospedale civile di Padova divenne luogo di formazione anche per i giovani aspiranti medici missionari che frequentavano il Cuamm (Collegio universitario aspiranti medici missionari), fondato nel 1950 dal dottor Francesco Canova con l’appoggio del vescovo Girolamo Bortignon: nelle corsie del “Giustinianeo” si preparavano e si preparano tuttora giovani che mirano a tenere insieme fede e professione sanitaria. Passando attraverso lo studio, la carità, dunque, ha preso in decenni non molto lontani da noi strade nuove (con l’Onlus Medici con l’Africa Cuamm), perfettamente attive, che si propongono di essere partecipi dell’esperienza di dolore degli uomini. L’importanza di questa istituzione è stata pubblicamente riconosciuta dall’Università di Padova il 09/11/2010 con il conferimento della laurea ad onorem in Istituzioni e politiche dei diritti umani e della pace a don Luigi Mazzucato, che del Cuamm fu direttore per ben 53 anni dal 1955 al 2008.