Su Galilei e il “caso Galilei” sono scorsi fiumi di inchiostro e potrebbe apparire superfluo o addirittura presuntuoso aggiungere ulteriori riflessioni riassunte in poche righe. Certamente, per quanto riguarda il processo a Galileo, il caso si può definitivamente considerare chiuso dopo la revisione fortemente voluta da Papa Giovanni Paolo II e con l’atto conclusivo, il 31 Ottobre 1992, della Commissione incaricata dal Papa stesso. Una revisione complessa, come testimonia l’ottimo libro “Galileo e il Vaticano[1]”, ma che pose fine a 4 secoli di diatribe che contribuirono non poco ad esacerbare il presunto ed erroneo conflitto tra la scienza moderna e la fede cristiana.
A trent’anni dalla sua revisione, il caso Galilei può essere oggi rivisitato da prospettive diverse, partendo dalla assodata conclusione che, come già Tommaso d’Aquino affermava con chiarezza, non solo scienza e fede non potranno mai essere in reale conflitto tra loro, ma sono chiamate entrambe a cooperare per un reale progresso di conoscenza: «La scienza può purificare la religione dall’errore e dalla superstizione; la religione può purificare la scienza dall’idolatria e dai falsi assoluti[2]».
La riflessione si può spostare quindi dal caso storico del processo ai cambiamenti radicali di conoscenza del reale che, a partire dalla Rivoluzione Copernicana e dall’introduzione del metodo scientifico galileiano, ci hanno condotto all’attuale modello cosmologico. Solo utilizzando, con distacco e serenità, una prospettiva storica possiamo apprezzare quanto di positivo abbia apportato l’applicazione del metodo galileiano, quali siano i limiti della sua applicabilità (certamente non evidenti né conoscibili al tempo del grande fisico pisano!), quale siano stati i problemi creati indirettamente dallo stesso e quali siano le indicazioni per il futuro che questa analisi storica ci consegna.
Non v’è dubbio che il metodo galileiano, così come Galilei stesso lo sintetizzava in una lettera[3] a Mark Welser, è ancora alla base dell’indagine scientifica: lo scienziato non si propone di indagare l’essenza del reale, ma si limita a descrivere, attraverso modelli matematici, la relazione di causa-effetto nei fenomeni osservabili con misure oggettivamente quantificabili. Se il metodo viene applicato avendo coscienza del suo limite intrinseco, ovvero la rinuncia a “tentar l’essenza”, non v’è dubbio che produce (e ha prodotto) entusiasmanti progressi di conoscenza e certamente l’intuizione profetica di Galilei, contenuta nell’ultima frase della lettera, si è ampiamente realizzata.
Il successo del metodo, subito evidenziato dalla teoria della gravitazione universale di Isaac Newton e dalla nuova meccanica celeste, ebbe una conseguenza inattesa e, vista a posteriori, deleteria: la Filosofia abbandonò di fatto l’indagine sulla Natura, giudicando affrettatamente ed erroneamente che essa fosse ormai ambito esclusivo della Scienza. Una decisione che ha contribuito a creare la separazione tra pensiero umanistico e pensiero scientifico che ha afflitto l’umanità per quattro secoli e tutt’ora permane nel nostro sottofondo culturale. Recentemente la Filosofia si è riavvicinata alla Scienza, ma nella forma di Filosofia della Scienza, evitando quindi riemergere come Filosofia della Natura. Questa situazione, consolidatasi con il passare del tempo, ha, parallelamente, inorgoglito a tal punto la Scienza da far credere che essa potesse dare risposta a qualunque domanda che riguardasse la Natura, dimenticando così il limite intrinseco del “tentar l’essenza” di galileiana memoria.
Una seconda conseguenza, quest’ultima dovuta soprattutto alle osservazioni del cosmo con strumenti ottici, inaugurata da Galileo nelle notti fatali dell’inverno del 1609, fu la distruzione della cosmologia aristotelica, ivi compresa la netta distinzione tra il mutabile mondo sub-lunare e l’incorruttibile quintessenza dell’empireo. Di fatto, l’umanità si ritrovò orfana di una cosmologia comprensibile, nella quale l’Uomo potesse avere un ruolo definibile: una situazione che solo negli ultimi cinquant’anni, come vedremo, ha trovato la via verso una soluzione soddisfacente.
Di fronte a questa rivoluzione epocale, la Teologia si trovò del tutto impreparata e, al di là della scomposta reazione che portò al processo di Galileo, si arroccò sulle posizioni scolastiche, fortemente intrise della cosmologia aristotelica, senza rendersi conto che le fondamenta di quest’ultima erano state distrutte. L’unico tentativo di discutere dal punto di vista filosofico e teologico le conseguenze dei concetti di spazio e tempo assoluti che emergevano dalla nuova scienza, è rappresentato dallo scambio di lettere tra Samuel Clarke e Gottfried Wilhelm Leibniz, ma i loro interessanti spunti vennero ben presto dimenticati con la loro scomparsa.
Oggi, dopo quattro secoli, abbiamo la possibilità di recuperare una cosmologia che inquadri e giustifichi in un modello razionale i dati osservativi che i sofisticati strumenti, terrestri e spaziali, eredi del Cannocchiale galileiano, ci forniscono riguardo la realtà cosmica.
La novità assoluta (e inattesa) del nuovo modello cosmologico è rappresentata dal carattere essenzialmente evolutivo del cosmo. L’universo ha una storia scandita dal tempo cosmico e ha attraversato fasi diversissime, ma tutte collegate tra loro. Nell’affrontare la sfida che ci presenta il nuovo quadro cosmologico, dobbiamo riflettere su quanto la storia ci ha insegnato e procedere con prudenza per non ricadere (o rimanere) in false illusioni.
Infatti, è ormai evidente che la storia cosmica non riguarda solamente l’evoluzione della materia/energia, ma comprende anche l’emergere della vita biologica e, almeno sul pianeta da noi abitato, della coscienza. La classica ed assoluta distinzione tra materia e spirito diventa sempre più labile e richiede nuovi modelli interpretativi della realtà globale. Dobbiamo quindi chiederci con onestà intellettuale se il metodo scientifico sia applicabile alla descrizione e interpretazione della nuova cosmologia onnicomprensiva, oppure se debba essere affiancato da altre epistemologie.
In effetti, anche volendo limitare il modello cosmologico alla sola parte “materiale”, il metodo galileiano di indagine, che si basa sulla possibilità di definire l’esperimento che si vuole interpretare e di ripeterlo modificandone i parametri o le condizioni al contorno, non è evidentemente applicabile al cosmo sia per la sua unicità (non possiamo ripetere l’esperimento che ha dato origine all’universo!) sia per l’impossibilità di conoscere con esattezza le condizioni iniziali. In questa situazione, anche la tacita assunzione dell’esistenza di leggi universali (le quattro interazioni fondamentali) va messa in discussione: potrebbe benissimo darsi che le leggi non preesistano in senso assoluto, ma emergano anch’esse come frutto dell’evoluzione cosmica universale.
La cosmologia moderna, dopo aver saputo descrivere con grande successo la distinte fasi dell’evoluzione cosmica, è entrata in una profonda crisi quando si è posta il problema della descrizione globale del cosmo: i tentativi, fallimentari in partenza, di giungere ad una Teoria del Tutto (Theory of Everything) ne sono un prova evidente. Più sofisticate e apparentemente più scientificamente valide sono le ipotesi dei multiversi, ovvero l’esistenza di molti o infiniti universi paralleli, o di un universo ciclico, quindi senza un vero “inizio”. Ma Galileo non deve essere dimenticato e tradito: i multiversi, per la loro stessa natura, non possono comunicare tra loro, quindi non potremo mai verificarne scientificamente l’esistenza. Similmente, la eventuale ciclicità dell’evoluzione cosmica rimarrà per sempre un’ipotesi plausibile, ma non verificabile. Tutte queste ipotesi, basate su una applicazione indebita del metodo scientifico, rientrano quindi nella categoria delle Weltanschauungen filosofiche o teologiche.
Quale visione del mondo scegliere quindi, visto che la Scienza non potrà mai proporne una oggettivamente verificabile? Forse quella che unisce armonicamente cosmo e coscienza, fondendoli in un unico percorso evolutivo che porta il tutto verso la realizzazione mistica del disegno per il quale la realtà è mantenuta in esistenza. Citando esplicitamente Pierre Teilhard de Chardin, Papa Francesco scrive: “Il traguardo del cammino dell’universo è nella pienezza di Dio, che è stata già raggiunta da Cristo risorto, fulcro della maturazione universale. In tal modo aggiungiamo un ulteriore argomento per rifiutare qualsiasi dominio dispotico e irresponsabile dell’essere umano sulle altre creature. Lo scopo finale delle altre creature non siamo noi. Invece tutte avanzano, insieme a noi e attraverso di noi, verso la meta comune, che è Dio, in una pienezza trascendente dove Cristo risorto abbraccia e illumina tutto. L’essere umano, infatti, dotato di intelligenza e di amore, e attratto dalla pienezza di Cristo, è chiamato a ricondurre tutte le creature al loro Creatore.[4]”
Piero Benvenuti – maggio 2022
NOTE
[1] “Galileo e il Vaticano – Storia della Pontificia Commissione di Studio sul Caso Galileo (1981-1992)”, Mariano Artigas e Melchor Sanchez de Toca, 2009, Marcianum Press.
[2] Giovanni Paolo II, Lettera al Direttore della Specola Vaticana, 1 giugno 1998
[3] “Perché, o noi vogliamo specolando tentar di penetrar l’essenza vera ed intrinseca delle sustanze naturali;
o noi vogliamo contentarci di venir in notizia d’alcune loro affezioni. Il tentar l’essenza, l’ho per impresa non meno impossibile, e per fatica non men vana, nelle prossime sustanze elementari che nelle remotissime e celesti. Ma se vorremo fermarci nell’apprensione di alcune affezioni, non mi par che sia da desperar di poter conseguirle anco nei corpi lontanissimi da noi, non meno che ne i prossimi.”
[4] Lettera enciclica Laudato Si’, 83