Prima di suggerire alcuni criteri orientativi e proporre alcune linee di pastorale universitaria, un’osservazione.
Non esiste, a mio avviso, una risposta precostituita ai problemi posti dall’università e forse non è neppure possibile indicarne qualcuna che possa ritenersi risolutiva; così come non mi pare poter individuare mezzi o strumenti che, una volta posti in essere, siano in grado di affrontare efficacemente la questione universitaria. La pastorale deve saper raccogliere e far convergere proposti e iniziative, coordinando le energie presenti nella Chiesa; e prima ancora promuovere una seria riflessione che coinvolga chi direttamente vive l’esperienza universitaria.
Ciò richiede che la diocesi senta l’urgenza e la necessità di una tale pastorale: intenda cioè, senza riserve, rivolgere un’attenzione del tutto particolare e preferenziale all’università intesa come ambiente che influisce nel formare una mentalità in coloro che la frequentano, con evidente rilevanza sulla vita, sul costume e sul modo di pensare della città stessa.
Parlo di pastorale intendendo la presenza e l’azione della Chiesa volta a suscitare il problema religioso e della fede, a fare giungere la Parola di Dio a chi ancora non l’ha accolta o ha abbandonato ogni pratica religiosa mantenendo riserve nei confronti della Chiesa, ad alimentare la fede in coloro che già credono; ma soprattutto, in riferimento agli studenti, a proporre un itinerario di formazione che coniughi insieme la fede e la cultura: una formazione, cioè, che aiuti a ricomporre nell’unità dell’esperienza personale le esigenze della fede con quelle della ricerca e della cultura.
È certamente, questo, un aspetto importante della pastorale universitaria e di non facile soluzione. Occorre saper intanto esorcizzare alcuni timori che si affacciano spesso quando si propone di coniugare insieme la ricerca e la fede, l’esperienza culturale e l’esperienza di fede.
Garanzia e sostegno nella ricerca
Il primo timore è di veder compromessa la libertà della ricerca da parte della fede: la fede, nel caso, viene considerata quasi un limite imposto, una frontiera che contiene i liberi spazi della ricerca scientifica, o delle ipotesi di indagine e di analisi. Una convinzione, o un pregiudizio, assai diffusi, che trovano o credono di trovare conferma in alcuni fatti storici, i quali rivelerebbero una certa intolleranza da parte della Chiesa, o meglio. Dell’autorità della Chiesa, verso ipotesi scientifiche che apparivano nuove o inedite rispetto a convinzioni radicate e ritenute non diffidenza permane ancora in coloro che studiano o ricercano nei riguardi della Chiesa e della fede, considerate come riduttive della libera ricerca.
Non saprei dire se una tale atteggiamento ha motivazioni che lo giustificano, ma non mi pare giusto intendere la fede cristiana come limitante l’indagine scientifica. La fede ha altra origine della scienza, proietta altra luce sul reale e sull’esistente, ma non si oppone alla scienza. Anzi, la fede, come assenso alla Parola di Dio, riporta alla genesi prima di tutte le cose, alla sorgente stessa dell’essere, rivela il senso ultimo della vita e della storia e così di quanto ci circonda ed avviene e, proprio per questo, non teme la ricerca, la provoca semmai, chiedendo che l’intelligenza si applichi, indaghi, scruti con i propri mezzi e le proprie risorse la realtà nei suoi molteplici aspetti umani e storici, per acquisirne quella conoscenza che è propria della ragione.
Nelle prime pagine della Sacra Scrittura l’uomo è presentato in un rapporto di amicizia con Dio; creato ad immagine e somiglianza di Dio, l’uomo ne è il rappresentante nel mondo; tutto è a lui sottomesso ed egli ne prende possesso dando il nome ad ogni cosa. Dare il nome significa conoscere e quindi possedere: senza conoscenza non c’è infatti reale possesso.
Dominare la terra è il comando di Dio, e per l’uomo è un dovere. Ciò dunque che emerge evidente da quelle pagine è che il rapporto dell’uomo con Dio non è affatto riduttivo della ricerca, ma motivante la ricerca. Se un’indicazione viene a noi con chiarezza non è nel senso limitante l’indagine dell’uomo e l’impegno della ragione; il rapporto con Dio è anzi garanzia e sostegno nella ricerca, nel senso quanto meno che libera l’intelligenza da ogni pretesa di autosufficiente autonomia, e ciò non perché ne mortifichi le capacità, ma perché le ricorda che è intelligenza creata. In breve, è atto di intelligenza, è proprio della ragione umana riconoscere o almeno sospettare dei prorpi limiti. La qualcosa non deve attenuarne l’impegno o scoraggiarne lo sforzo: deve semmai aiutarla a prender coscienza di sè e a mantenersi disponibile e aperta ad altro.
L’invito che all’origine della moderna cultura è stato rivolto all’uomo di «usare della propria ragione» e l’identificazione dell’uomo adulto con chi sa usare la ragione non è in contrasto con la fede, se intenzionalmente con esclude che altra luce, oltre quella razionale, può posarsi sulla realtà e sul profondo dell’essere per illuminarlo e far emergere aspetti ulteriori rispetto a quelli individuati dalla ragione.
La fede non deve, quindi, esser considerata limitativa della ricerca; è piuttosto invito, sostegno, fino a farsi dovere morale per il credente di impegnarsi nella ricerca e nella indagine. Non si oppone alle ipotesi interpretative che l’uomo avanza e per le quali cerca una verifica: ricorda all’uomo che è creatura e che all’origine di tutto c’è Dio creatore. Lo introduce a ricomprendere la realtà e la creazione tutta nella sua genesi prima e nella prospettiva della redenzione, compiuta in Gesù Cristo, il Signore. Lo aiuta ad individuare nel mondo che lo circonda e che egli deve dominare, non solo le tracce o le impronte della propria opera, ma i segni riconoscibili della presenza di Dio creatore e del Cristo redentore.
La fede – la grazia di Dio – sostiene così l’uomo perché non ceda alla tentazione di ritenersi arbitro unico del mondo restando così prigioniero dei propri limiti. Non basta infatti ignorare o negare i propri limiti perché essi cessino di essere tali. Sono inscritti nella nostra natura ed ognuno ne conosce il retaggio. La fede, ancora offre all’uomo una possibile comprensione della realtà che va oltre ciò che la ragione intende da sola: ne rivela il senso ultimo. Conoscere le cose vuol dire anche conoscere il loro posto nella gerarchia dell’essere e così il loro senso per l’uomo, dal momento che immediatamente a lui sono ordinante. In altre parole la fede insegna all’uomo che egli è posto al centro della creazione ma lo dissuade dal voler farsi centro di tutte le cose: il suo vero riferimento, quello che motiva la sua grandezza, la sua dignità che rappresenta la sua vocazione, è a Dio, per Gesù Cristo, in un rapporto di amore.
Non risolvere il Vangelo in cultura
Ma proprio per tutto questo occorre guardarsi anche dalla tentazione o pretesa di chi vuole che la fede si risolva in cultura, riducendo o ignorando gli ambiti propri della ragione e della ricerca. Una posizione intransigente che ha trovato, nel corso della storia della Chiesa, anche se non aperti assertori, sinceri simpatizzanti. Fin dai primi secoli tale atteggiamento fu assunto e difeso da Tertulliano, che si rifiutava di riconoscere un rapporto fra Roma ed Atene, il Vangelo e l’Accademia. Anche Tertulliano – uso il suo nome come emblematico – ha avuto i suoi seguaci e la sua posizione ha attraversato, e non sempre minoritaria, la storia della Chiesa. Una posizione che confessa preoccupazioni apologetiche e tende a risolvere tutto nella fede, senza salvaguardare gli ambiti che restano propri della ricerca razionale, che riconduce a certezza anche ciò che permane opinabile e, sia pure con nobili intenzioni, presume di far dire al Vangelo ciò che non dice e non vuole dire.
Risolvere il Vangelo in cultura non è servire il Vangelo, ma impoverirne la ricchezza e la verità. Il Vangelo è parola di Dio, rivelazione, buona notizia per l’uomo: anche nel senso che lo libera da ogni soggezione all’egoismo e all’autosufficienza per renderlo in tal modo più idoneo e disponibile alla ricerca del vero.
Credere al Vangelo vuol dire accoglierlo come fondamento, pietra angolare su cui innalzare l’edificio della propria vita: porre, in altri termini, alla base dell’esistenza non l’io con i suoi limiti, ma Dio, che le dà stabilità e solidità. È la scelta dell’uomo saggio che costruisce il proprio edificio non sulla sabbia mobile, ma sulla roccia, garantendone così la stabilità di fronte alle inevitabili tempeste della vita.
Una lunga digressione, questa, ma forse necessaria per cercar di chiarire come non dovrebbe esistere contrasto, e meno ancora opposizione, tra fede e ricerca, pur avendo ognuna una propria genesi e proprie finalità: esiste semmai un rapporto dinamico e una possibile integrazione nella salvaguardia della natura propria di ognuna. Ritorneremo sull’argomento più avanti.
Tratto da:
Filippo Franceschi, Compagni di strada nella storia, Libreria Gregoriana Editrice, Padova, 1984 (pp.135-139)